J’AI PERDU MON CORPS

Down in Mexico…

Essi vivono!

Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.

Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:

J’ai perdu mon corps

Questa rassegna nasce da una riflessione sulla lotta per la conservazione e la resistenza alla dissoluzione e si snoda a partire da tre opere piuttosto lontane fra loro per momento e modalità di composizione, oltre che per soggetto: Le mura di Sana’a di P. Pasolini, Moloch di A. Sokurov, La mort de Louis XIV di A. Serra.

Città, potere, malattia: variazioni di un’unica tensione che attraversa ciò che è vivo e l’avvolge inderogabilmente. Gioco di ‘corpi’ dalle dimensioni e nature differenti, che tuttavia in quanto tali rispondono ad una medesima urgenza: resistere, conservarsi, differire la propria dissoluzione.

La prima proposta su cui provare a mettere in esercizio questa riflessione è rappresentata dal cortometraggio Le mura di Sana’a di Pier Paolo Pasolini, che filma la città vecchia di Sana’a il 18 ottobre 1970, l’ultima domenica che avrebbe trascorso con la troupe in Yemen per le riprese di un episodio del Decameron (peraltro poi non confluito nel montaggio finale del film).

Le mura di Sana’a (Italia, 1970) è descritto dal regista come un appello all’UNESCO per la salvaguardia della città: Pasolini, che in un’intervista al Corriere della Sera sottolineerà l’importanza che quel progetto aveva assunto per lui ( “energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare; ci tenevo troppo a girare questo documento”), invoca l’organismo internazionale perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana’a».

La città vecchia, raccolta dentro le mura di cinta, è descritta come carica di un’atmosfera immutabile, originaria; essa sembra appartenere ad un passato che ne ha prodotto e poi cristallizzato la forma, al punto da rendere quasi irreale la sua bellezza.

Il ‘corpo’ della città, organizzatosi nel corso dei secoli anche grazie alla protezione e al filtro delle mura – pelle artificiale che permette di mantenere i rapporti con la realtà di fuori senza disperdere l’ordine dei rapporti interni – dopo aver raggiunto una fisionomia compiuta e apparentemente definitiva, è sottoposta alla pressione della modernità e del progresso, che aspettano la sua caduta acquartierati in prossimità dei suoi confini.

Assumendo le sembianze e la forza desiderante di altri corpi (riferendosi ai tecnici cinesi arrivati in Yemen per costruire le nuove strade, arterie del progresso, Pasolini dice che ‘ i loro corpi hanno la natura delle apparizioni’), la potenza della vita ‘anonima’ assedia la città vecchia, ormai percepita dai suoi stessi abitanti a partire dalla povertà che impasta le sue vie e i suoi palazzi; povertà fino a quel momento fiera e decorosa, che si scopre malattia di fronte alla salute dei corpi venuti da lontano, la cui energia e giovinezza reclamano e impongono nuovi riti e nuovi sguardi.

Le mura di Sana’a risuona come il grido strozzato nella gola di chi vede l’imminenza della fine di ciò che ama: la drammatica lucidità e l’urgenza ‘carnale’ raccontata da Pasolini nel portare a termine questo documento, (come ricordato sopra, dice di aver dosato le sue ‘energie e la forza fisica’ per riuscirci) testimonia però al contempo la sua distanza dall’esistenza reale, viva e incarnata, dell’oggetto del suo amore. Distanza e alterità inevitabili, in fondo, per ogni corpo amato rispetto al corpo dell’amante: Pasolini guarda Sana’a, ma il suo sguardo non può arrivare dove si poserà quello di chi ha, in Sana’a, il suo unico orizzonte possibile.

Le immagini immortalano il corpo della città nell’istante precedente alla sua dissoluzione, cercando di opporre una resistenza che i suoi abitanti, nell’inconsapevolezza della vita che ancora li attraversa, non sanno e non vogliono opporre, pur di poter continuare a vivere.

Paragonando la città yemenita alla laziale Orte, Pasolini dirà che “per l’Italia è finita, lo Yemen può essere ancora salvato”, e per questo rivolge il suo appello all’Unesco, perché intervenga prima che sia ‘troppo tardi’. Ma come si può evitare la dissoluzione di una forma vivente ‘individuata’ – sia pure nella modalità, non strettamente biologica ma socialmente composita, di una città – e quindi necessariamente destinata alla perdita della sua particolare esistenza, senza togliere da essa la vita stessa?

Moloch di A. Sokurov (Russia, Germania, 1999) mette in scena una giornata di vacanza sulle Alpi bavaresi; protagonisti Adolf Hitler, il suo segretario personale, Eva Braun e i coniugi Goebbels.

La presentazione del film ne riassume così il soggetto: “nel pieno della seconda guerra mondiale, in un’atmosfera rarefatta e surreale, il Führer ci appare nelle sue piccolezze private, circondato da una corte di servi accondiscendenti, incapaci di vedere la lenta decadenza del Reich e della sua guida.”

Nell’economia del nostro discorso, ciò che interessa è la manifestazione di questa decadenza: a chi e in che modo essa si mostra, quali reazioni suscita.

Hitler, pur arrivando nella residenza di montagna in compagnia di Bormann e dei Goebbels e già atteso nel castello del Berghof dall’amante Eva Braun, ci appare profondamente solo, assediato dalle preoccupazioni sulla sua salute, trincerato dietro le costruzioni teoriche che espone durante i pasti ai suoi ospiti.

Eva, che rispondendo ai lamenti di Hitler lo accusa di essere diventato ipocondriaco con la connivenza servile dei suoi medici, viene mostrata fin dall’inizio come l’unica voce autorizzata a incrinare il rispecchiamento egocentrico del Führer. La clandestinità della relazione – e quindi la mancanza di uno statuto ufficialmente riconosciuto nel sistema modellatosi intorno a Hitler – le permette infatti di assumere un ruolo eccentrico, capace di dare voce a ciò che lo spettatore già conosce, e che tutti gli altri personaggi del film e della Storia forse solo intuiscono (il film è ambientato nel ‘42, la disfatta nella guerra e il destino tragico della Germania nazista sono ancora relativamente lontani).

La consapevolezza dell’inevitabilità della dissoluzione dei corpi qui in gioco – il grande corpo del popolo tedesco, in lotta sul campo di battaglia contro le potenze straniere, e il corpo biologico del Führer, stretto tra gli attacchi interni delle malattie immaginarie e le illusorie strategie di conservazione (la dieta vegetariana) – sfugge però innanzitutto al soggetto principale di questa dissoluzione.

“Sconfiggeremo la morte”, dice Hitler, salutando Eva prima di ripartire dal castello. La lotta per la conservazione è ciò che permette la vita; la lotta non può essere persa, finché si ha la forza di combattere. Dunque, anche la più grande contraddizione possibile per l’umano – la possibilità di sconfiggere ciò che lo rende appunto tale, l’essere che si sa mortale, e che perciò dal destino di morte non può uscire – può essere usata come arma: se la ragione non si dimostra un buon alleato in questa lotta, non si esiterà ad abbandonarla.

La replica di Eva suona, nella sua banalità letteralmente sconcertante, come un ritorno all’evidenza originaria: “Come può essere? La morte è la morte. Non può essere sconfitta”.

Suspicion (Il sospetto), A. Hitchcock, Stati Uniti, 1941, film che dà il titolo alla rassegna

J’ai perdu mon corps, J. Clapin, Francia, 2019, film che dà il titolo alla rassegna

 

The Talk of the Town (Un evaso ha bussato alla porta), G. Stevens, Stati Uniti, 1942, 117'

Le mura di Sana’a, P.P. Pasolini, Yemen, 1971

 

In a Lonely Place (Il diritto di uccidere), N. Ray, Stati Uniti, 1950, 94'

Moloch, A. N. Sokurov, Russia – Germania, 1999

 

The Fallen Idol (Idolo infranto), C. Reed, Regno Uniti, 1948, 95'

La mort de Louis XIV, A. Serra, Francia – Spagna – Portogallo, 2016

 

Eva non appartiene fino in fondo alla realtà determinata in cui vivono i suoi contemporanei – è già ‘da sempre’ nel castello, ad aspettare sola nella nebbia, lontano dagli uomini che combattono per la vita e in essa ancora sperano: fuori dalla ‘forma individuata’, a lato del segno temporaneo tracciato dai corpi individuali (corpo della Germania, corpo del suo Führer…), l’inevitabilità della dissoluzione e del ritorno nella vita anonima appare nella sua semplice sconcertante evidenza.

Il terzo momento di questo percorso, La mort de Louis XIV di A. Serra (Francia, Spagna, Portogallo, 2016), ci porta proprio sulla soglia che separa resistenza e dissoluzione. Il film ricostruisce gli ultimi giorni del grande sovrano francese, mostrando l’attesa per la definitiva distruzione del suo corpo e del potere in esso incarnato. La lotta con la propria fine è qui ripresa nei momenti conclusivi, là dove si è sciolta anche la folle e disperata convinzione di poter resistere, di poter ‘durare’ ancora.

Il sovrano è ridotto – forse finalmente rivelato – a mera maschera, copertura di un potere che ha perso ogni efficacia, di cui conserva solo l’apparente riconoscimento esteriore: l’ipocrisia spietata della corte di Versailles (che esulta per il minimo gesto del re moribondo, fingendo di interpretarlo come il segno dell’imminente guarigione), è la tragicomica trasformazione del servilismo degli ospiti e dei domestici nel castello nelle Alpi bavaresi, in cui Hitler poteva rispecchiarsi nel suo desiderio delirante.

Ma nel film di Serra il desiderio del protagonista è ormai scomparso, lasciando spazio all’attesa – febbrilmente preoccupata – per il compimento dell’inevitabile.

Il desiderio si è spostato in chi ha ancora forza e possibilità di opporre resistenza, proteso nell’inseguimento del proprio destino.

Da un lato l’aristocrazia francese, raccolta sullo sfondo della stanza da letto del sovrano, che aspetta la dissoluzione di quel corpo assediato dalle incrostazioni di una vita spesa al servizio del potere; corpo logoro e malato, che verrà presto sostituito da uno più giovane e ricettivo, nuovo supporto disponibile a ricevere i segni delle trame e delle ambizioni della nazione, cicatrizzandoli a sua volta su di sé.

E, intorno al corpo del sovrano, la danza macabra dell’altro grande soggetto desiderante, la medicina, in quegli anni ancora piuttosto maldestramente alla ricerca di un riconoscimento e di un’autorevolezza che più tardi otterrà in modo unanime e, forse – pensando all’oggi – definitivo.

Faremo meglio la prossima volta’: la battuta raggelante proferita nel finale dal medico che constata il fallimento della ‘cura’ (che aveva trovato nel letterale smembramento del corpo del re il suo momento simbolicamente decisivo), mostra con grande efficacia la tesi di fondo di questa rassegna.

Il sapere medico, controcanto della salute inconsapevole (cosa c’è di più straziante di un bambino ospedalizzato?), pur essendo strutturalmente in ritardo rispetto alla vita, tenta di fermarla e trattenerla, impedendo o almeno differendo il suo fluire via dal corpo curato.

Ma a sua volta la medicina, come ogni sapere umano, dà luogo ad un flusso che si mantiene vivo e operante tramite il rilancio nel tempo lungo delle generazioni: è situandosi a quel livello, nell’imitazione sapiente della vita anonima che prescinde da ogni destino individuale, sia esso del singolo medico o del malcapitato paziente, che si potrà ‘fare meglio la prossima volta’.

Il percorso suggerito dalla rassegna descrive una traiettoria circolare, se osservata dal punto di vista della vita anonima e impersonale; vita eterna in quanto continuità immutabile, che sempre fa di ogni fine un inizio, sciogliendo il senso di questi stessi termini nel fondo indistinto e neutrale dell’origine.

La traiettoria circolare diventa immagine dell’unica tensione fondamentale, traccia della permanenza di un unico corpo impersonale; come la bambola nuda, muta e imperturbabile si offre al bambino quale supporto di personaggi e avventure sempre nuove, suggeriti dalla sua fantasia e da qualche pezzo di stoffa colorata, così le volontà individuali sono gli abiti con cui vestiamo la vita, dandole un volto e una storia.

Quello stesso andamento circolare assume però una direzione, uno sviluppo e un destino, se osservato a partire dai diversi punti di vista che si determinano in esso.
Dalla voce degli ‘abiti’, dei rivestimenti della vita – quella città modellata nei secoli, quel potere fondato sui desideri che di volta in volta lo nutrono, il mio corpo malato– si apre la dimensione della temporalità lineare, che fa della vita la mia vita, dell’infinita materia vivente il mio corpo, dell’operosità dei singoli la città e la sua storia.

La circolarità senza nome si fa esistenza situata, qui e ora, e dunque si espone alla tragicità inevitabile del suo destino: perché nella lotta tra conservazione e dissoluzione, ogni punto di vista, ogni realtà individuata – sia essa una città, una forma di potere, un uomo in agonia – ha, appunto, il tempo contato.

Si sforza per rimandare, per quanto può e fin che può, l’inevitabile conclusione: la sua fine. Fine che però è appunto sua, cioè tale solo per lui: conclusione della linea che la sua esistenza ha tracciato nel piano geometrico della vita, segno temporaneo riassorbito come una ruga di espressione nel volto eterno della vita.

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