LAMPI SULL’ACQUA

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Lampi sull'acqua - Nick's Movie (Lightning Over Water), W. Wenders, Germania Ovest/Svezia, 1990, 91'

Lampi sull’acqua – Nick’s Movie (Lightning Over Water), W. Wenders, Germania Ovest/Svezia, 1990, 91′

La moglie sola (Charulata), S. Ray, India, 1964, 117'

La moglie sola (Charulata), S. Ray, India, 1964, 117′

La grande città (Mahanagar), S. Ray, India, 1963, 131'

La grande città (Mahanagar), S. Ray, India, 1963, 131′

La donna venduta (Hot Blood), N. Ray, USA, 1956, 85'

La donna venduta (Hot Blood), N. Ray, USA, 1956, 85′

Il paradiso dei barbari (Wind Across the Everglades), N. Ray, USA, 1958, 93'

Il paradiso dei barbari (Wind Across the Everglades), N. Ray, USA, 1958, 93′

Essi vivono!

Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.

Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:

Lampi sull’acqua

Ray contro Ray. Due film di Satyajit Ray e due film di Nicholas Ray. A legarli il tentativo di ragionare sulle relazioni tra individuo e gruppi sovraindividuali, tra interessi individuali e interessi diffusi e collettivi.

Satyajit Ray

La moglie sola (Charulata). Giovane moglie viene trascurata dal marito, editore indipendente di un settimanale liberal e scrittore polemista. Si innamora del giovane cugino acquisito, che ne indirizza le letture e la incoraggia a scrivere. Pur dipingendo sullo sfondo  alcune vicende politiche, in particolare quelle che riguardano la posizione dell’India nei riguardi della Gran Bretagna, la vicenda è una storia prevalentemente privata, che riguarda la posizione delle donne (altre mogli, oltre alla protagonista, vengono tratteggiate brevemente) e l’interrogarsi sul desiderio e, soprattutto, su cosa significhi stare in relazione. La soluzione di Ray situa la relazione fruttuosa nella volontà di condivisione, di presenza, di ascolto.

Se c’è qualcosa che tiene fortemente insieme i film di Ray è proprio l’attenzione dedicata al nucleo familiare, allargato ma non troppo, al
suo progredire come un organismo unico, alla sua assoluta necessità, tanto per garantire ai propri membri la possibilità di una sopravvivenza che non sarebbero riusciti a garantirsi da soli (vedi i primi film della “Trilogia di Apu”), tanto per contribuire alla crescita
intellettuale e spirituale dei suoi componenti (vedi l’ultimo Apu e questa Charulata). Alla famiglia si affianca la casa, luogo d’elezione
della famiglia stessa. I pieni e i vuoti della casa, le stanze abitate o disabitate, la cura o il disfacimento delle mura casalinghe, le
abitazioni respirano insieme ai propri abitanti e non di rado ne seguono il destino.

 

Mahanagar (La grande città). A Calcutta una famiglia (marito, moglie, figlio e la giovane sorella di lui) vive di stenti, da quando i nonni paterni hanno deciso di vivere con il figlio. I soldi mancano, ma il marito non ha il coraggio di chiedere alla moglie di cercare un lavoro. Ha ricevuto un’educazione conservatrice e sa bene che domandare alla moglie di lavorare gli alienerebbe le simpatie dei genitori. Quando alla fine si decide, la moglie, sulle prime titubante, scopre che lavorare le piace. Il mondo di lei si divide in due: da una parte la famiglia, sempre più distante, che non la comprende e che vorrebbe farla smettere di lavorare; dall’altra parte il posto di lavoro, ricco di crescenti soddisfazioni personali.

Altro ritratto di donna, dopo quello della Moglie sola. Meno riuscito del primo, non è tuttavia privo di pregi. Anche qui si insiste sulla dimensione familiare come punto di partenza e d’arrivo fondamentali per ogni tipo di interazioni con la città, con la nazione. Quasi come se la famiglia fosse un unico individuo e fare massa, presentare una serie di corpi uniti come fossero uno solo, fosse il solo mezzo per sopravvivere all’impatto della grande città. Privo del cinismo dell’Eroe, torna un Ray che, in nome di quella pietà e dignità umana incarnate dalla moglie, perdona tutto ai propri personaggi e si sforza di ricomporre, di venire a patti con le spinte centripete che li animano. Modernità e tradizione sono ancora presentate alla ricerca di un precario equilibrio, pur nei conflitti sempre più violenti che le scuotono.

Nicholas Ray

La donna venduta (Hot Blood), film del 1956 di Nicholas Ray. Un vecchio re zingaro, Marco Torino, vuole passare lo scettro al suo successore, il fratello Stephano. Questi però è un donnaiolo, attratto dallo stile di vita dei gadjo (non gitano), ovvero tutti coloro i quali sono fuori dalla comunità zingara. Marco, per far mettere la testa a posto al fratello, gli organizza un matrimonio con una zingara. Stephano inizialmente non ne vuole sapere, ma la moglie piano piano lo seduce. Non riuscitissimo, il film è vittima di un’antropologia culturale d’accatto, che conferma gli stereotipi più che metterli davvero in prospettiva. Gli zingari presentano loro stessi come ladri, facili all’ira e alle liti, chiassosi, imbroglioni ma di buon cuore. Come se il mettere in bocca al rappresentato (stereotipato) la rappresentazione (gli stereotipi) sia indice della bontà della narrazione stereotipica. Come in molti altri Ray – ed è forse il punto di maggior interesse – si presenta una società altra, che corre parallela a quella mainstream. L’aspetto più interessante è proprio questo incedere della comunità zigana parallelamente a quella bianca. Le due si toccano solo incidentalmente. Si può notare come l’attraversamento del tessuto cittadino da parte degli zingari corrisponda a una trasformazione dello spazio e delle funzioni assegnate a quello spazio. Per esempio: non esistono luoghi privati, la dimensione pubblica penetra perfino nelle stanze da letto. Durante la luna di miele gli invitati al matrimonio si mettono sotto la finestra degli sposini, a intonare canzoni d’amore. E ancora: i parchi diventano prati dove celebrare, accesi immensi falò, feste di compleanno; le strade i luoghi dove anche le famiglie regolano i loro conti, dove amori e conflitti sono esposti agli occhi della comunità intera. Una possibile lettura per alcuni film di Ray potrebbe anche partire da qui, dalla presentazione di “culture”: la cultura giovanile (Gioventù bruciata), quella zingara (La donna venduta), quella libertaria (Il paradiso dei barbari)…

Il paradiso dei barbari (Wind Across the Everglades). L’altra frontiera degli Stati Uniti, ovvero la Florida. Agli albori del XX secolo, Miami era poco più di una cittadina e non del tutto diversa, nella struttura territoriale, da alcune città da film western. L’abitato urbano godeva di alcuni privilegi della modernità, ferrovia, telegrafo, automobili, unita a un’organizzazione sociale che, fondata sulla municipalità, era tenuta ben saldamente in mano dai maggiorenti della città. La zona paludosa e acquitrinosa appena fuori dall’abitato, invece è regno di ogni tipo di bestie e di uomini che ora stanno fuori dal consorzio umano, ora ne instaurano di alternativi. Tra questi indiani e gruppi di personaggi che si situano a cavalcioni tra legge e fuorilegge. A Miami in quegli anni scoppiava la moda dei cappelli adornati da piume d’uccello. Ogni donna indossava vistosi copricapi e gareggiava con le rivali per numero e bellezza di piume. Ne consegue uno sterminio della popolazione di uccelli del territorio attorno alla città, mattanza guidata dal gruppo di bracconieri capitanati da un certo Cottonmouth (Burl Ivens). Le piume sono sì procurate tramite un selvaggio bracconaggio, però servono al tempo stesso a sostenere l’economia cittadina, e il consiglio cittadino è disposto a sorvolare. Gli si oppone una piccola società di protezione degli animali, che si assume il compito di proteggere la fauna avicola del circondario e di consegnare Cottonmouth alla legge. Per farlo assume un naturalista, Walter Murdock (Christopher Plummer). Tra i due inizia uno scontro che porterà a esisti inaspettati. E’ Cottonmouth a dettare le regole del gioco. La palude è il suo regno e Walter un ospite che crede di conoscerla solo perché l’ha studiata sui libri.

Film pasticciato che avrebbe potuto essere un capolavoro. Cottonmouth ha più di un tratto in comune con il giudice Holden di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Radicalmente diverso da buona parte della produzione mainstream statunitense del periodo (la produzione è Warner), il film è sceneggiato da Budd Schulberg (quello di Fronte del porto e di Un volto nella folla) e prodotto dal fratello di Schulberg, che licenzierà Ray (malato e drogato, secondo il Morandini) poco prima della fine delle riprese, e completerà lui stesso il montaggio. Peccato, perché ci sono dei grandi momenti e c’è, di nuovo, un capolavoro in potenza. Resta un film da vedere, soprattutto per il crescendo della seconda parte, che ribalta ogni logica hollywoodiana classica, ne rimescola le carte truccate del manicheismo spinto, riduce l’importanza del romance, continua il discorso di Ray sull’antieroe e utilizza l’ambiente naturale al posto dei set in studio, insomma tenta un’opera di erosione del “prodotto” cinematografico, per far emergere qualcosa di più grezzo, meno raffinato, forse, ma più autentico e meno artefatto.

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