SNARK FESTIVAL 2024

Dal 13 al 15 settembre presso il Cine-teatro Qoelet di Bergamo

Proiezioni in lingua originale con sottotitoli in italiano

Ingresso gratuito

Ufficio Stampa Sara Agostinelli
+39 329 0849615
sara.agostinelli@gmail.com

Lightning Over Braddock: A Rustbowl Fantasy

13 Settembre h 20.30

Regia: T. Buba

Culloden

13 Settembre h 22.30

Regia: P. Watkins

 

The Emperor's Naked Army Marches on

14 Settembre h 16.00

Regia: H. Kazuo

Portrait of Jason

14 Settembre h 18.30

Regia: S. Clarke

 

Streetwise

14 Settembre h 21.00

Regia: M. Bell

 

A Married Couple

15 Settembre h 16.00

Regia: A. King

Trances

15 Settembre h 18.30

Regia: A. El Maanouni

 

Cabra Marcado para morrer

15 Settembre h 21.00

Regia: E. Coutinho

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Con il patrocinio di

Mediapartner

Lightning Over Braddock: A Rustbowl Fantasy

13 Settembre, ore 20:30

1988 / 80 min / 16mm / Color

Regia: Tony Buba
Produzione: Tony Buba
Fotografia: Brady Lewis 
Suono: Stephen Pellegrino 
Montaggio: Tony Buba

Lightning Over Braddock: A Rustbowl Fantasy, uscito nel 1988, è il primo lungometraggio del documentarista Tony Buba, che già con i lavori precedenti si era proposto come un acuto testimone della sua cittadina natale e delle sue vicissitudini: Braddock, la ‘piccola Pittsburgh’, cresciuta nei decenni precedenti grazie allo sviluppo del settore siderurgico e diventata così un piccolo ma vivace centro commerciale e culturale della Pennsylvania.

Come tante altre città industriali della regione -sintomaticamente denominata Rust Belt/Rustbowl, ‘cintura di ruggine’ – anche la Braddock di Buba a partire dagli anni ’80 del secolo scorso venne colpita duramente dall’inesorabile declino dell’industria pesante statunitense, diventando un osservatorio privilegiato per la trasformazione economica e sociale che stava colpendo una parte rilevante del Paese.

Dove sei andata, Braddock, città della luce, città della magia?”, canta poco dopo l’inizio con aria nostalgica il primo dei tanti sgangherati personaggi che incontreremo: ed è forse quella scena – con cui la ‘fantasia’ di Buba di fatto prende avvio, dopo una breve ma ficcante esposizione delle condizioni ‘strutturali’ in cui versa la città, e con cui poi si chiuderà – che può farci entrare nello spirito che anima il film.
Perchè Lightning Over Braddock sembra appartenere, appunto, più al genere della ‘fantasia’ che a quello dell’inchiesta sociale: è una divagazione dal carattere personale, biografico – anche se ovviamente modellata a partire da quel determinato contesto e dalle sue caratteristiche, come d’altronde l’intera produzione del regista – più che (o, meglio, oltre che) un’analisi delle contraddizioni del sistema economico. Ed è quindi uno spaccato della propra vita che Tony Buba ci racconta, il suo precario ‘successo’ come giovane e promettente documentarista (successo dunque pur sempre relativo, come le impossibili sirene del disimpegno hollywoodiano alla ‘Love Boat’ o il severo fantasma di Werner Herzog non smettono di ricordargli) costruito però sulle macerie materiali e morali della comunità a cui appartiene. Buba si descrive in Lightning Over Braddock come il proverbiale ‘pesce grande’ di una piccola cittadina che, se da un lato è consapevole di dover allargare progressivamente il bacino del suo stagno per poter stare a galla, dall’altro sa bene di non poter recidere i legami con l’ambiente che lo ha nutrito. Ed è qui che prendono forma gli incontri con quei personaggi tanto comicamente quanto tragicamente ‘sgangherati’, che Buba riesce a tratteggiare con leggerezza e ironia, senza ridurne però la profondità: su tutti, l’italoamericano “Sweet” Sal – un teppista di mezza età con cui il regista aveva lavorato in precedenza, ossessionato dalla speranza di diventare un attore di fama e paranoicamente risentito per il successo ottenuto dall’amico/nemico – vero perno dei vari e apparentemente sconnessi snodi del documentario.

Lightning Over Braddock e Tony Buba, che sarà presente in sala alla proiezione del film con cui si aprirà il festival, ci sembrano dunque ben rappresentare lo stile indefinibile e l’andatura eccentrica dello Snark… A questo punto, non resta che cominciare a seguirne la scia!

Culloden

13 Settembre, ore 22:30

1964 / 69 min / 16mm / B/N

Regia: Peter Watkins
Produzione: Peter Watkins – British Broadcasting Company
Fotografia: Dick Bush
Suono: John Gatland – Lou Hanks
Montaggio: Michael Bradsell

Hanno creato un deserto e l’hanno chiamato “pace”  [citazione tratta dal film]

La battaglia di Culloden si svolse il 16 aprile 1746 in Scozia. Durò poco più di un’ora, esattamente quanto il film, che ricostruisce con grande attenzione la vicenda, i protagonisti, gli accadimenti. Culloden, di Peter Watkins, è un film commissionato dalla BBC, del 1964, in bianco e nero, quasi completamente senza musica, ambientato e girato vicino a Inverness, nei luoghi della battaglia, con costumi e armi dell’epoca. Un documentario storico, su una vicenda bellica di quasi quattro secoli fa tra scozzesi/giacobiti, sostenitori di Charles Edward Stuart, detto Il Giovane Pretendente, e lealisti (inglesi e scozzesi) guidati dal duca di Cumberland (detto il Macellaio), figlio del re George II.

Sul piano didattico-educativo, in pochi minuti si imparano molte cose. Per esempio, che l’esercito dei giacobiti, composto da poco più di 5 mila uomini, completamente disorganizzati e male attrezzati, venne letteralmente massacrato (più di mille e duecento morti, più di mille feriti), e la battaglia, di fatto una disfatta totale, si propagò nei mesi seguenti, con eccidi efferati da parte degli inglesi volti a sottomettere definitivamente la Scozia.

Ma i dati storici riportati, che fanno il verso ai documentari naturalistici o alle radiocronache sportive, non si limitano alla battaglia in sé, ed è proprio questo che rende il film tutt’altro che un documentario bellico fatto da e per un “pubblico maschile”, ma un’opera d’arte (e politica) molto interessante. Nel tratteggiare chi, come e perché ingaggia il combattimento, il commento audio dice: “This is the system of the Highland’s clan: human rent”: a seconda della classe sociale cambiano le motivazioni che spingono/costringono a imbracciare le armi, il tipo di equipaggiamento, il cibo, i vestiti, il bestiame posseduto, lo stipendio e il potere d’acquisto.

Inoltre, il documentario diventa l’occasione per riflettere sul mezzo stesso: costruito come una radiocronaca o un’inchiesta televisiva, con interviste, sguardi e dialoghi in macchina, mette in scena al tempo stesso la finzione (il documento delle fonti, teatralizzate da attori come nelle rievocazioni storiche) e il genere documentario (che opera nella finzione del modello della radiocronaca, non solo con una voice over dominante ma anche messa in scena per un momento da un finto osservatore-giornalista che commenta le strategie belliche con un cannocchiale, al riparo di un muretto a secco).

Primo lungometraggio di Watkins (grandissimo documentarista, di cui invitiamo a esplorare tutta la filmografia), è un bianco e nero dove il colore della guerra è il bianco (il cielo, la nebbia, la polvere dei cannoni, la confusione) e la posizione dello sguardo dello spettatore è adesa ai protagonisti della battaglia, quasi sempre inquadrati in primissimi piani.

The Emperor’s Naked Army Marches on

14 Settembre, ore 16:00

1987 / 122 min / 35mm / Color

Regia: Kazuo Hara
Produzione: Sachiko Kobayashi
Fotografia: Kazuo Hara
Suono: Toyohiko Kuribayashi
Montaggio: Jun Nabeshima

È il 1982 e Kenzo Okuzaki, veterano della Seconda Guerra Mondiale e personaggio eccentrico su posizioni anarchiche e antiautoritarie (che ha trascorso dieci anni in prigione negli anni cinquanta per omicidio, ha tirato biglie d’acciaio nel 1969 contro l’Imperatore, colpevole, ai suoi occhi, di aver portato al massacro un’intera generazione), si muove per le strade del Giappone con furgone e megafono, con lo scopo di trovare e fare confessare agli ufficiali di stanza in Guinea le atrocità da loro comandate nei confronti della popolazione locale e dei soldati giapponesi stessi nelle ultime fasi del conflitto mondiale. Egli intende così ripristinare la verità storica, far trionfare la giustizia costringendo i colpevoli, ormai anziani signori che vengono spinti a confessare, anche con le maniere forti, ad assumersi la responsabilità morale di quanto accaduto, nonché trovare spazi di affermazione ed esibizione di sé.

L’eccentricità di Okuzaki rispetto al contesto sociale e culturale, consiste anche nella volontà di rievocare vicende di un periodo storico completamente rimosso dalla memoria collettiva nel Giappone post-bellico.

Il regista Kenzo O’Hara segue e filma le gesta di Okuzaki per lungo tempo; sappiamo che è Okuzaki, dopo esser stato individuato da Imamura, celebre regista giapponese, che poi affida il progetto a O’Hara, a chiedere con insistenza di essere filmato e anche che la confessione che egli ottiene da uno degli ex ufficiali è avvenuta a telecamere spente, ma noi spettatori ne vediamo una seconda replica, messa in scena come se fosse l’originale.

Ci possiamo quindi chiedere: quanto spontanea è l’azione di Okuzaki davanti alla macchina da presa? Quanto è stimolata e condizionata dal fatto di essere ripresa? Certamente egli è il protagonista dei suoi atti e del film; sue sono l’ideazione e la realizzazione di quanto vediamo sullo schermo: il regista lascia accadere davanti a sé lo svolgersi degli eventi e li raccoglie dando loro forma e visibilità. Al tempo stesso, tuttavia, Okuzaki mette in scena se stesso e il “processo” ai carnefici, così come il regista indirizza e condiziona in qualche modo, anche con la sua sola presenza, così prolungata nel tempo, lo svolgimento dei fatti. I carnefici stessi diventano vittime di Okuzaki, che si trasforma a sua volta in carnefice, in un rovesciamento di prospettiva che rende ambiguo e sfuggente anche questo documentario del festival.

E noi spettatori dove ci collochiamo? Come ci inseriamo in questa ambiguità? Fino a dove, inoltre, è lecito e opportuno che si spinga lo sguardo del regista e dello spettatore? A ciascuno il compito di trovare una risposta.

Portrait of Jason

14 Settembre, ore 18:30

1967 / 105 min / 35 mm / B/N

Regia: Shirley Clarke
Produzione: Shirley Clarke
Fotografia: Jeri Sopanen
Suono: Francis Daniel, Jim Hubbard

Montaggio: Shirley Clarke

Il camp accade – scrive Fabio Cleto nella sua introduzione al volume PopCamp – ‘trova luogo’ là dove sguardo e oggetto si ‘travestono’, fanno spazio a un narcisismo sfrenato e autoironico, e si mettono in scena1.

Portrait of Jason è l’epitome dello spirito camp, un suo compendio visivo. Uscito nel 1967, il film di Shirley Clarke – che sin da subito raduna attorno a sé una selezionata e ristretta cerchia di ammiratori, tra cui spicca Ingmar Bergman – ci presenta il racconto della vita di Jason Holliday, omosessuale nero dedito a imbrogli e prostituzione, ripreso nel suo appartamento al Chelsea Hotel di New York nell’arco di 12 ore, dalle 21 di sabato 3 dicembre 1966 al mattino del giorno seguente.

Durante queste 12 ore Jason – incalzato dall’allora compagno della regista, l’attore Carl Lee – passa da una maschera all’altra, in un gioco vorticoso e senza fine, un gioco che Jason sembra poter giocare all’infinito. Le insistenze di Carl Lee a essere vero, autentico, si scontrano invariabilmente contro un’identità polimorfa e cangiante; vengono continuamente frustrate e si trovano costrette a battere in ritirata, bombardate da un fuoco di fila di aneddoti e storielle, di ammiccamenti e allusioni.

L’istrionismo di Jason sarebbe incontenibile, se non fosse per il progressivo logoramento a cui viene sottoposto il corpo del performer. Fumo e alcool ne compromettono la lucidità, le storie si fanno confuse, l’eloquio meno controllato. Ma le maschere non cadono, non mostrano verità alcuna nel volto e nelle parole di chi le indossa una dopo l’altra – e spesso una sopra l’altra. Si tratta, piuttosto, di una battuta d’arresto, di un inciampo d’artista, d’un attore sfatto che troppo ha richiesto alle proprie capacità.

La cifra del camp – scrive ancora Cleto – è un travestimento psichico (più che banalmente vestimentario) che lo rende volubile, evanescente, inafferrabile. Jason ci avrebbe messo la firma.

1 Fabio Cleto, Sipario, in PopCamp volume 1, Milano, Marcos y Marcos, pp. 10-11

Streetwise

14 Settembre, ore 21:00

1984 / 91 min / 16mm / Color

Regia: Martin Bell
Produzione: Cheryl McCall 
Fotografia: Martin Bell
Suono: Meredith Birdsall – Keith Desmond – Jonathan Oppenheim – Pola Rapaport – Janet Swanson – Dick Vorisek
Montaggio: Nancy Baker

Tiny e Rat, Dewayne e Lulu. E poi Shadow, Patti, Munchkin e tanti altri. Sono solo alcuni dei nomi dei ragazzi di strada filmati da Martin Bell nella Seattle dei primi anni Ottanta del Novecento. Il film, del 1984, viene ispirato da un articolo uscito su Life nel luglio del 1983. A firmare l’articolo la scrittrice Cheryl McCall, le fotografie di accompagnamento sono di Mary Ellen Mark, moglie di Bell.

Con un livello di intimità a tratti incredibile e sconcertante, Martin Bell ci mostra la vita quotidiana dei ragazzi in quella che veniva considerata la città con la miglior qualità della vita di tutti gli Stati Uniti. Il suo è uno sguardo franco, scevro di pregiudizi. Alle immagini viene spesso affiancato un commento sonoro, lasciato ai ragazzi stessi. Con una scelta tra le più azzeccate di tutto il documentario, le interviste frontali che vengono fatte loro non ci vengono mai mostrate. Se ne sente invece l’audio, montato sapientemente sulle immagini della vita da strada.

Il risultato finale – a cui contribuisce in maniera decisiva l’apporto di una delle più grandi montatrici statunitensi, Nancy Baker – è quello di un’immersione totale nel mondo di Tiny, Rat e degli altri. Alla fine del documentario i suoi protagonisti e i suoi loghi – Pike Street, l’Hotel William Penn, Shakey’s Pizza – smettono di appartenere a una città lontana, a decenni fa, per diventare parte dell’immaginario dello spettatore, come gli eroi, o gli antieroi, e i luoghi di un romanzo, e finiscono, come questi ultimi, per apparirci meglio definiti ‘dei nostri stessi amici’, per usare le parole di Edward Morgan Foster. E qui sta forse un altro grande pregio dell’opera di Martin Bell: l’essere riuscito a fare un documentario con la sintesi, il ritmo e i climax dei migliori film di finzione.

A Married Couple

15 Settembre, ore 16:00

1969 / 100 min / 16mm / Color

Regia: Allan King
Produzione: Allan King Associates
Fotografia: Richard Leiterman
Suono: Douglas Bush – Zal Yanofsky
Montaggio: Arla Saare

Considerato come un innovativo esempio di ‘cinema verità’/direct cinema, in A married couple A. King mostra la vita privata di una coppia di suoi amici alle prese con una profonda crisi coniugale. Billy e Antoinette – e sullo sfondo il loro figlio piccolo, Bogart – accettano di condividere la loro quotidianità per dieci settimane, aprendo la loro casa a due operatori, silenziosamente e discretamente presenti ogni giorno dalla mattina presto fino a tarda sera. King, scegliendo di non partecipare alle riprese per evitare di influenzarle con la sua presenza, dalle circa 70 ore di girato ricaverà un documentario descritto come capace di “esplorare l’istituzione del matrimonio e le implicazioni sociali dell’intimità disciplinata”[1].
Guardando il film, lo spettatore odierno potrà facilmente trascendere il contesto e la sua data di produzione – il Canada di ormai più di cinquant’anni fa – ritrovando nelle difficoltà legate alle dinamiche di questa particolare ‘coppia sposata’ alcuni elementi che sembrano iscritti così in profondità nelle relazioni umane da diventare quasi ‘a-temporali’ e ‘sovra-individuali’: la volontà di controllo e l’esigenza di indipendenza, il nesso tra potere e denaro, il labile confine linguistico e psicologico tra comunicazione e manipolazione….Un vortice di sguardi, parole ed emozioni amplificato dalla figura del bambino, primo spettatore/attore della faticosa ristrutturazione dell’equilibrio familiare; attraverso la sua inconsapevole presenza, Bogart sembra infatti far risuonare dentro lo spettatore la condizione di precarietà cui è esposto per ciascuno di noi il rapporto con l’altro, quale che sia il ruolo che agiamo in esso.
Noi ora sappiamo che, dopo l’uscita del film, Billy e Antoinette decisero di rimanere insieme e avere un secondo figlio. E che qualche anno dopo si separarono.
Ma questo documentario – come, forse, ‘il’ documentario in genere – in fondo non è davvero interessato alle vicende di ‘chi’ viene raccontato, ma all’effetto che fa in chi lo guarda. La sua forza è l’apertura al ‘possibile’ che può innescare, più che esporre la ‘realtà’ mostrata in particolare. E allora, dopo aver visto il film, che ognuno costruisca il suo finale, se davvero abbiamo bisogno di crearcene uno.

[1]John Semley, cit. in www.thecanadianencyclopedia.ca/en/article/a-married-couple

Trances

15 Settembre, ore 18:30

1981 / 88 min / 16 mm / Color

Regia: Ahmed El Maanouni
Produzione: Izza Génini – Souheil Ben-Barka
Fotografia: Ahmed El Maanouni
Suono: Nass El Ghiwane
Montaggio: Jean-Claude Bonfanti – Atika Tahiri

Primo film a essere restaurato dalla World Cinema Foundation di Scorsese, presentato nella sezione Cannes Classics nel 2007 e al festival internazionale di film di Marrakesh nello stesso anno, viene spesso presentato come un “film culto” sulla band Nass El Ghiwane, gruppo nato nel 1971 e tutt’ora in attività. È difficile spiegare la portata dell’importanza di questo gruppo, non solo all’interno della produzione musicale marocchina, ma a livello internazionale. I Nass El Ghiwane si collocano nel panorama culturale del Marocco degli anni Settanta, dove la scena musicale era dominata dalla musica libanese ed egiziana. In questo contesto, la loro musica è stata un forte motivo di innovazione. Il gruppo unisce varietà sonore musicali marocchine, sperimentando e mescolando strumenti e stili. Cantano in un dialetto poetico, i loro testi contengono proverbi, detti e rinvii alla saggezza popolare. Il documentario, la cui idea iniziale era di essere un film-concerto, alterna le riprese dei concerti e delle prove a dei momenti di vita quotidiana dei membri del gruppo. Uno degli aspetti che lo rende molto interessante è il suo carattere universale: nel guardarlo, si resta ammaliati dalla musica e dalle inquadrature, dalle parole e dai riferimenti culturali costanti, a cui non viene data una “spiegazione”: è un film da vedere e ascoltare.

Cabra Marcado para morrer

15 Settembre, ore 21:00

1984 / 115 min / 16 mm / B/N e Color

Regia: Eduardo Coutinho
Produzione: Wladimir Carvalho – Eduardo Coutinho – Zelito Viana
Fotografia: Edgar Moura – Fernando Duarte
Suono: Rogério Rossini
Montaggio: Eduardo Escorel

“Uomo segnato per la morte” è un film documentario del regista brasiliano Eduardo Coutinho, che nel 1964 si reca a Galileia, località rurale del Nord-Est, per girare una sorta di docu-fiction sulla vita e la morte di Joao Pedro Teixeira, leader locale delle lotte contadine, assassinato su mandato dei proprietari terrieri. Non ci sono attori professionisti, sono gli abitanti del posto a recitare la parte dei vari protagonisti della vicenda. Ma le riprese vengono interrotte dal colpo di stato militare: Coutinho e la troupe, oltre che diversi contadini, tra cui Elizabeth, la vedova di Joao Pedro, che nel film recitava se stessa, sono costretti a fuggire in maniera rocambolesca all’arrivo dei militari, i quali sostengono che il film sia una propaganda comunista per fomentare la rivolta contadina e così distruggono tutto il materiale che trovano; fortunatamente la pellicola delle riprese già effettuate era già stata spedita a Rio de Janeiro.

Elizabeth, che aveva portato avanti le lotte del marito, si sente in pericolo di vita e così fa perdere completamente le proprie tracce andando a rifugiarsi in un villaggio lontano e isolato, cambiando anche nome e portando solo uno dei suoi numerosi figli con sé.

Diciassette anni dopo, Coutinho torna a Galileia e intervista coloro che avevano recitato nel film e altre persone del posto, mostrando loro le riprese. Nel frattempo riesce a ritrovare Elizabeth e rintraccia anche i suoi figli che non la vedevano dal 1964.

Il risultato finale è un film che rappresenta in maniera chiara ed esemplare i tratti essenziali del volto oppressivo e violento del potere, il grido di protesta delle sue vittime, la loro sofferenza e impotenza, nonché intense e drammatiche vicende familiari. Il contesto storico-sociale viene così visto e analizzato attraverso la lente di vite singolari e irripetibili. Ci troviamo inoltre di fronte ad un documentario che si costruisce pezzo per pezzo, a partire dalle circostanze che si vengono a creare, che suggeriscono nuove narrazioni oltre che la natura stessa della messa in scena, dato che Coutinho non aveva intenzione di girare un documentario, inizialmente. E così narrazione cinematografica e biografia dei suoi protagonisti, regista e troupe compresi, si saldano in un intreccio fitto e inestricabile; realtà e rappresentazione si scambiano continuamente le parti e realizzano un’unità profonda e sfuggente al tempo stesso, ulteriore dimostrazione di come il film documentario non sia un prodotto facilmente definibile e inquadrabile, bensì uno Snark, la creatura inafferrabile del poema di Lewis Carroll, di cui il festival va in caccia.

dove & come

🍔🍺🥗Dove mangiare qualcosa, tra una proiezione e l’altra?
Il bar dell’ Oratorio di Redona – Bergamo – a due passi, o forse addirittura a mezzo passo dal cinema Qoelet – rimarrà aperto per tutta la durata del Festival. In alternativa nelle immediate vicinanze trovate bar, pub, pizzeria e trattoria…
🅿️ Dove parcheggiare?
In via Galimberti, via Ressi e via Berlese si trovano diversi posti auto gratuiti. Allungando leggermente la strada si può parcheggiare attorno al parco Turani.
🚍Con i mezzi pubblici,
puoi arrivare utilizzando l’ATB – Azienda Trasporti Bergamo: puoi prendere il tram, fermata Negrisoli, a meno di 10 minuti a piedi dal cinema Qoelet, oppure l’autobus (linee 5 o C) e fermarti in via Corridoni, 46.

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