SALESMAN

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Salesman, A. Maysles, D. Maysles, C. Zwerin, USA, 1969, 91'

Salesman, A. Maysles, D. Maysles, C. Zwerin, USA, 1969, 91′

Paris is burning, J. Livingstone, USA, 1990, 78'

Paris is burning, J. Livingstone, USA, 1990, 78′

Mort a Portrait of Jason, S. Clarke, USA, 1967, 103'

Portrait of Jason, S. Clarke, USA, 1967, 103′

Jesus Camp, R. Grady e H. Ewing, USA, 2006, 84'

Jesus Camp, R. Grady e H. Ewing, USA, 2006, 84′

Crumb, T. Zwigoff, USA, 1994, 119'

Crumb, T. Zwigoff, USA, 1994, 119′

Essi vivono!

Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.

Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:

Salesman

Quattro passi da ubriachi nel documentario statunitense. Quattro ritratti, due collettivi e due individuali, sotto il segno – i segni – dell’apparenza. O dell’apparente apparenza.

Paris is burning, documentario del 1990 di Jennie Livingstone sulla comunità gay e transgender dei neri e dei latinos newyorkesi. Il documentario si concentra sui ball, vale a dire delle peculiari competizioni che si tenevano all’interno della comunità stessa. Si tratta di un insieme di sfilate, travestimenti e balli. Tantissime le categorie per competere nei ball, alcune di queste assurde. Si va dall’uomo d’affari alla ragazza al primo giorno di scuola, dalla donna matura alla sfilata parigina, dal duro da strada allo shade. Molto interessanti le parti che trattano dello shade/reading e del voguing, strettamente legate l’una all’altra. Lo shade deriva dal reading. Il reading, letteralmente la “lettura”, il “leggersi”, parte da una rivalità, da uno scontro o da una necessità di difesa. Si “legge” l’altro quando si trova una caratteristica dell’altro, molto spesso legata al fisico, al make-up, o a qualche altra caratteristica estetica, che lo identifica e che potrebbe risultare un punto debole. Allora la si esagera in pubblico, mettendo l’altro alla berlina. Inizialmente il “reading” nasce come risposta dei gay agli etero che li attaccavano verbalmente per le strade, ma l’invettiva raggiunge il suo apice creativo quando sono due partecipanti a ball a “leggersi”. Non possiamo mica dirci a vicenda che siamo due travestiti, dice uno. Lo vediamo bene che siamo due travestiti, dobbiamo trovare altri argomenti per attaccarci. Dalla “lettura” dell’avversario nasce lo shade, ovvero “gettare un’ombra”, “adombrare” l’avversario. Il vogueing è il reading portato a livello di danza. Inizialmente era un ballo che coinvolgeva due o più persone che dovevamo “leggersi” a suon di mosse di danza, tutte o quasi mutuate dalle pose delle modelle sulle riviste di moda (Vogue in particolare, da cui vogueing). Il ballo non prevede che i due contendenti si tocchino. Ogni mossa deve avvicinare il primo concorrente al secondo, senza che i due entrino in contatto. Alcuni (Will Ninja, il più famoso, lavorerà con il Malcom McLaren “americano”) praticano poi il vogueing in solitaria, elevandolo a una sorta di combattimento individuale contro il mondo.
I ball avvengono nelle houses, case governate da una “madre”, spesso specializzata in una categoria particolare dei ball. Si seguono le competizioni che si svolgono, principalmente nel 1988 (con una breve puntata nel 1989), nelle principali “case”. Emerge, fortissima, la volontà di somigliare il più possibile alla controparte etero rappresentata nelle varie categorie. I sogni dei concorrenti ai ball, esplicitati attraverso interviste, sono sempre sogni di successo e di conformismo, di adesione almeno figurativa al mondo che, al di fuori dei ball, sembra essere a completa disposizione per chi è bianco ed etero. Se posso somigliare a un uomo d’affari, dice un concorrente, vuol dire che posso diventare un uomo d’affari. Questo assunto è ripetuto senza posa. Ne sono schiavi in modo particolare i due transgender su cui la Livingstone si concentra di più, che sognano di fare le modelle per le grandi case di moda. La più giovane delle due, Venus Xtravaganza – ed ecco la coda del 1989 – verrà trovata strangolata, quattro giorni dopo il decesso, sotto il letto del Duchess Hotel di New York. L’altra, Octavia St. Laurent, partecipa a diversi provini per diventare una modella professionista. Questa sete di successo e di mimetismo sono i due elementi che strutturano le storie dei partecipanti ai ball e rimangono, insieme alle riprese dei ball stessi, tra le ragioni d’essere del documentario.

 

Portrait of Jason, documentario del 1967 di Shirley Clarke. Dodici ore in compagnia dell’imbroglione, contaballe, marchettaro Jason Holiday, ridotte a poco meno di due in fase di montaggio. Tutto girato in un giorno, in un’unica stanza, con un unico personaggio sullo schermo, Jason, appunto. Il tempo viene scandito dai ciak, di solito aperti e chiusi con un fuori fuoco e/o con la sola traccia audio. Le voci della troupe, le domande che la regista e il compagno di lei, Carl Lee, pongono a Jason, tutto viene registrato e tutto finisce nel film, comprese le indicazioni della regista all’operatore (stagli sotto, taglia, continua a riprendere, cose così). Jason fuma e beve, beve e fuma, mentre racconta la sua storia, un groviglio inestricabile di vero e falso, di esagerazione e non detto, di sottintesi e doppi sensi. Perde progressivamente la compostezza, i modi da gay raffinato, via via che si ubriaca. Ma questo non porta a un surplus di verità, non c’è il vero Jason, là in fondo. E’ tutta maschera, o meglio, la maschera, la posa, i modi hanno talmente aderito all’epidermide da essere l’epidermide, la falsità di Jason è la sua verità, l’inautentico l’autentico. Jason scardina o evita di rispondere alle domande più trite e personali, come quelle sulla famiglia, a meno che non possa raccontare della famiglia a modo suo. Quando si mette a rispondere come “una persona normale farebbe” scoppia presto a ridere, esagera, teatralizza. Film libero come pochi, in cui si beve e si fuma, si parla apertamente e a ruota libera di sesso, prostituzione e tutto il resto. Pare impressionò tantissimo Bergman.

Jesus Camp, documentario del 2006 di Rachel Grady e Heidi Ewing. Ovvero gli evangelici sotto George W. Bush. Durante la presidenza Bush Jr. gli evangelici avevano guadagnato credito, ascolto e potere, tanto da formare un blocco elettorale piuttosto compatto e in grado di spostare sistematicamente l’ago della bilancia elettorale. La loro azione di lobby prevedeva, tra i vari cavalli di battaglia: il rifiuto della possibilità di abortire, l’insegnamento nelle scuole del creazionismo al fianco dell’evoluzionismo, l’elezione in posti chiave delle istituzioni di uomini e donne di fiducia, che esprimono posizioni vicine a quelle evangeliche. La base popolare del movimento si riuniva in tendoni da revival, con migliaia di persone ad ascoltare i sermoni dei predicatori. Questo il contesto generale. Nel particolare il film mostra un gruppo di giovanissimi evangelici che, alcuni con i genitori e altri da soli, seguono un campo estivo sotto il segno di un martellante indottrinamento. La leader del campo, animata da una militanza inesausta e da una visione piuttosto guerresca dell’attivismo cattolico (si auspica di trasformare i bambini in soldati di Cristo; bisogna, dice, saper rispondere colpo su colpo ai musulmani, i quali mettono in mano ai loro figli le bombe fin dalla tenera età), coordina le attività del gruppo. Il documentario presenta in prima battuta i bambini ripresi nelle loro case, per poi spostarsi alla vita comunitaria del campo. I momenti di pura follia sono talmente tanti che è impossibile enumerarli tutti. Si va dalla benedizione di un file Power Point (Perché si sa che il diavolo lo blocca sempre quando serve!), alla sagoma di Bush benedetta dai bambini, fino alle violenze – vere e proprie torture psicologiche – alle quali sono sottoposti i partecipanti del campo, che spesso crollano in lacrime o vengono scossi da convulsioni incontrollabili. Il materiale è di grande interesse. Peccato la regia, non sempre all’altezza. Musiche fuori luogo ed eccessive, che dovrebbero farci comprendere il “tono emotivo” di quel che vediamo. Alcune “belle” inquadrature in realtà banali e scontate, e, ancora una volta, non necessarie. La maggiore pecca rimane il contrappunto affidato a un conduttore radio, che ci spiega quanto in realtà siano poco cattolici questi evangelisti. Sarebbe bastato limitarsi a far parlare chi ha animato il “campo di Gesù”.

Crumb, documentario del 1994 di Terry Zwigoff. Ritratto di Robert Crumb, seguito nei mesi immediatamente precedenti al suo trasferimento nel sud della Francia. Il ritratto del fumettista underground emerge tramite le interviste con le poche persone che gli hanno transitato – e resistito – accanto: i familiari (due fratelli e la madre), le ex mogli o fidanzate, i galleristi, i colleghi fumettisti. Sono soprattutto i momenti con i fratelli a funzionare: Robert li incontra separatamente, ma è come se tutti e tre (il maggiore Charles, Robert e il minore Maxon) continuassero un ininterrotto dialogo bambinesco/adolescenziale. Per Charles non c’è mai stato altro: dopo una breve esperienza lavorativa ha deciso di non uscire più di casa, e vive dalla madre. I segni di un’adolescenza estremamente difficile (anche e soprattutto sessualmente) sono particolarmente evidenti su tutti e tre i fratelli, Charles è sotto psicofarmaci (tranquillanti e antidepressivi), Max, epilettico, ha già subito ricoveri coatti e si dedica a pittura e fachirismo (mentre parla con Robert siede su un letto di chiodi), Robert trasferisce su carta il proprio odio verso le donne. Nessuno dei tre fratelli, in realtà, si aspetta molto dagli altri due: spesso monomaniaci, scarsamente empatici, alle volte paiono un’unica personalità che abbia preso possesso di tre corpi differenti. Nessuno dei fratelli è disposto a fare nulla per gli altri, le loro rispettive scelte sono intangibili, ne va preso atto. Se Zwigoff avesse avuto il coraggio di portare fino in fondo quel Crumb del titolo, intendendolo come “i Crumb, la famiglia Crumb” sarebbe stato un capolavoro assoluto. Ciò che sta fuori dalla famiglia funziona meno bene. Le donne di Robert Crumb, alle quali viene dato un discreto spazio, lo mettono – o cercano di metterlo – di fronte a letture differenti, punti di vista altri dal suo, ma lui se ne frega altamente. Sterile invece la contrapposizione polemica tra i difensori di Crumb e chi lo accusa di pornografia, di sessismo, di razzismo… Il grosso è comunque sui Crumb, e sono pagine meravigliose.

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